sabato 31 maggio 2008

Segui i soldi, il lungo viaggio dalla Cina al consumatore USA

Il post precedente dedicato al significato del deficit e surplus corrente si conclude con il percorso kafkiano di un televisore e dei soldi per comprarlo a credito che, partiti entrambi dalla Cina, arrivano insieme in Texas. Poiché questo percorso è il nocciolo della globalizzazione e in un paio di punti si fa tortuoso proviamo a percorrerlo di nuovo e con più calma.

In una delle mille fabbriche cinesi un operaio finisce di assemblare un televisore LCD, per produrre il quale ci sono voluti componenti e manodopera molto reali e poco pagati in yuan, la moneta ufficiale cinese. Il televisore viene venduto in una partita insieme ad altre centinaia di televisori uguali per 700 yuan l'uno a un importatore americano. L'importatore alla frontiera aveva cambiato circa $100 a pezzo al cambio ufficale di circa 7 yuan per un dollaro, direttamente dalla banca centrale cinese.

Fin qui tutto regolare. L'importatore se ne torna a casa insieme ai suoi televisori, alleggerito dei dollari necessari all'acquisto, ma contento. Infatti conta di rivenderli a $200 al pezzo con un discreto margine anche contando i costi di trasporto e tutto il resto.

Ma che fine fanno tutte le banconote da $100 lasciate alla frontiera?

Qui c'è la prima tortuosità del nostro percorso. Il cambio ufficiale dollaro/yuan è imposto dalla banca centrale cinese su valori artificialmente bassi in modo da incentivare l'export cinese. Difatti una parte significativa del successo commerciale della Cina deriva dalla svalutazione competitiva operata sistematicamente sullo yuan. Il risultato dello yuan artificialmente debole è che il resto del mondo trova i beni cinesi più economici, mentre i cinesi trovano più cari i beni provenienti dall'estero. Il risultato è che ai cinesi non interessa di cambiare i proprio yuan per dollari e comprare beni americani, perché possono avere quasi tutto più economicamente sul mercato cinese.

I buona sostanza, i $100 rimangono nelle casse della banca centrale cinese che non sa esattamente cosa farci, se non chiamarli 'riserve monetarie'!

La banca centrale cinese naturalmente non tiene queste riserve monetarie in grossi mucchi di banconote da $100, ma cerca di investirli in strumenti finanziari a basso rischio in modo da recuperare la perdita di valore dovuta all'inflazione. Qui la questione si fa ancora più tortuosa poiché il democraticissimo governo degli Stati Uniti non disdegna di essere finanziato dall'amico governo chinese attraverso la sottoscrizione di obbligazioni del Tesoro (chiamate treasuries, bills o notes) o di quelle di agenzie governative (chiamate agencies), ma chiaramente non può permetter che lo stesso governo cinese, comunista e non democratico, possa investire a suo piacimento nell'economia americana. Quindi buona parte delle riserve monetarie cinesi finisce in titoli di stato americano permettendo al governo Bush di fare spese pazze (ad esempio la guerra contro il terrore) e contemporaneamente abbassare le tasse alle persone e alle aziende.

Ma torniamo ai nostri $100 al pezzo che dalla frontiera cinese sono arrivati nelle casse del dipartimento del Tesoro. Per ogni pezzo da $100 di fiananziamento ricevuto sono richiesti $100 in meno di tasse oggi (e molti di più in futuro, ma questo è materiale per un altro post) e il risultato efficacie è che i contribuenti si ritrovano in tasca l'intero valore dei tagli fiscali finanziati dalla banca popolare cinese e contemporaneamente sul groppone il debito equivalente.

Eccolo là come almeno una parte dei $100 iniziali finiscono nelle tasche di Joe Sixpack giusto in tempo per poter andare a ritirare l'ultimo modello di LCD appena arrivato dalla Cina.

Ma quanto conta veramente il finanziamento della banca popolare cinese all'economia degli stati uniti? Le cifre fornite da Brad Sester sulla crescita delle riserve monetarie cinesi nel 2007 sono dell'ordine dei $600 miliardi, il PIL degli stati uniti è stato di circa $14,000 miliardi, il finanziamento cinese è stato all'incirca il 4% del PIL.

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